Remdesivir: l’antivirale utilizzato nella lotta contro il Covid-19 a somministrazione ospedaliera
La somministrazione della terapia antivirale è tanto più efficace, quanto prima si utilizzano tali rimedi dalle prime fasi dell’insorgenza dell’infezione. Entro 10 giorni, per la precisione, in pazienti che non necessitano di alti flussi di ossigeno-terapia
(AGR) Nella lotta contro il virus Covid-19, la somministrazione della terapia antivirale (Remdesivir, anticorpi monoclonali, etc..) è tanto più efficace, quanto prima si utilizzano tali rimedi sin dalle prime fasi dell’insorgenza dell’infezione. Entro 10 giorni, per la precisione, in pazienti che non necessitano di alti flussi di ossigeno-terapia. Questo eviterebbe da una parte il progredire della malattia verso stadi più gravi, dall’altra consentirebbe il ricorso alle cure ospedaliere a un minor numero di pazienti. Non solo. I pazienti arriverebbero in ospedale in condizioni mediamente meno gravi, il che consentirebbe loro una velocità di recupero maggiore e si otterrebbe una riduzione dei ricoveri in terapia intensiva.
Numeri alla mano: secondo una simulazione fatta ad aprile, utilizzare Remdesivir comporterebbe una riduzione di circa 8mila accessi in terapia intensiva e una riduzione di circa 13mila morti. «In termici economici tutto questo si trasdurrebbe in un risparmio di circa 400 milioni di euro», sottolinea Matteo Ruggeri, Ricercatore, Centro Nazionale di HTA - Istituto Superiore di Sanità e Professore di Politica Economica, St Camillus International University of Health Sciences, Roma, nel corso del webinar “IMPATTO ORGANIZZATIVO DELLE TERAPIE PER LA CURA DELL’INFEZIONE VIRALE DA COVID”, organizzato da Motore Sanità.
«Per utilizzare il più precocemente possibile il farmaco è importante riconoscere al più presto il paziente», precisa Antonio Cascio, Direttore Unità Operativa Malattie Infettive Policlinico “P. Giaccone” di Palermo. «Da qui la necessità di implementare le attività di tracciamento. L’ideale sarebbe una sorta di collegamento tra ospedale e territorio in tempi reali, con l’ausilio di sistemi informatici. Ci sono già modelli simili, del resto volere è potere. E poi, molto importante, la possibilità di somministrare il farmaco in day hospital».
«Noi abbiamo un ambulatorio che è stato allestito appositamente per la somministrazione dei monoclonali», conclude Francesco Menichetti, Professore Ordinario di Malattie Infettive Università di Pisa - Direttore UO Malattie Infettive AOU Pisana - Presidente GISA. «Certo, un network per la medicina territoriale è il presupposto fondamentale per garantire l’accesso tempestivo dei nuovi infetti. I monoclonali, lo ribadiamo, devono essere somministrati all’inizio dell’infezione perché siano efficaci, di modo da impedirne la progressione fino a malattia. Per quanto ci riguarda abbiamo un buon network con i medici di medicina generale e con l’Usca che ci ha permesso da una parte di portare avanti sperimentazioni importanti come con i monoclonali AstraZeneca, dall’altro di utilizzare in modo esteso i monoclonali approvati da AIFA».
Ancora una riflessione da parte degli esperti intervenuti nel corso del webinar: il futuro è in mano agli antivirali orali, attualmente in via di sperimentazione, dei quali ancora però non si dispone per l’uso clinico. Potrebbero rappresentare quelle pillole da portarsi in tasca e da potere essere assunte alle prime avvisaglie di attacco influenzale. Adesso però, noi dobbiamo fare i conti con oggi e il nostro presente è rappresentato dai monoclonali e da Remdesivir, farmaci a vocazione territoriale ma a somministrazione ospedaliera. Situazione in qualche modo paradossale ma ben comprensibile, dal momento che i prodotti approvati da AIFA richiedono la somministrazione endovenosa.