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Dalla cronaca al romanzo, Massimo Lugli racconta la città di Roma

Massimo Lugli giornalista di Repubblica e Paese Sera apre il suo taccuino e svela i segreti di un mestiere affascinante ma anche le difficoltà, le sensazioni e le passioni segrete. Un testimonianza schietta, raccontata nei suoi libri pronti a diventare un film

printDi :: 27 aprile 2021 12:53
Massimo Lugli in un suo intervento negli studi Rai

Massimo Lugli in un suo intervento negli studi Rai

(AGR) di Ginevra Amadio

Sembrano film i racconti di Massimo Lugli. Ricordano gli episodi di un thriller interminabile, di quelli pensati a più voci, come tasselli di un’unica – grande – tragedia umana. E sono, in effetti, una tragedia multiforme, densa di nomi, omissioni, dettagli fuori posto. Chi li conosce – per esperienza e passione – sa che un margine di incertezza rimane nelle cose, al di là degli esisti e delle ipotesi. È lì che si inserisce la cronaca, il tentativo più vivo di riportare ‘le storie’. Non stupisce, dunque, la passione di Lugli, né il salto naturale dal giornalismo alla narrativa. C’è nelle sue parole un’energia sorprendente, un affilato procedere del ragionamento. La lunga carriera è del resto già garanzia: per anni cronista di nera a “Paese Sera”, è transitato a “la Repubblica” dove è rimasto sino alla fine. Legato all’ambiente romano – pur con incursioni in territori altri – ha trasposto in romanzi la sua ‘vera’ esperienza, gli affanni, le unicità, di una città ribollente. Terzo classificato al Premio Strega con “L’istinto del lupo” (Newton Compton, 2009), ha pubblicato una serie di volumi in coppia con Antonio Del Greco, portando avanti – in parallelo – la scrittura ‘solitaria’.

 
Massimo, ripercorriamo la tua parabola. Tanta è la passione e l’acume che sembri avere la cronaca nera iscritta nel codice genetico: come hai iniziato?

“Ho cominciato giovanissimo, a 19 anni. Ancora lo ricordo, era l’11 aprile del 1975 – un mese prima del mio compleanno. Ottenni un periodo di ‘volontariato’ a “Paese Sera”, il giornale che più amavo. Per me fu un’occasione speciale, un salto importante dal punto di vista professionale e affettivo. Era il mio sogno! Oltretutto, ho sempre voluto scrivere di cronaca nera, l’ambito che più mi apparteneva, verso il quale nutrivo una vera fascinazione. Ricordo che entrai in redazione e da subito mi destinarono alla nera, anche perché gli anni Settanta, a Roma, erano caldissimi.

C’era il terrorismo, le bande armate, una criminalità massiccia e anarcoide. Dovetti fare una sorta di ‘corso accelerato’ sulla malavita, imparare a definirla, a tracciarla, e così per le forze dell’ordine, di cui appresi i gradi, la gerarchia – per evitare ogni errore. Poi andai subito sul campo, giacché “Paese Sera” aveva tre edizioni (mattino, pomeriggio e notte); io lavorai a quella del pomeriggio-notte, il che voleva dire trovarsi in redazione presto, elaborare e rielaborare. I fatti erano i più vari: sparatorie, agguati, attentati.

Vivevo sempre in giro, ricordo la macchina con cui mi muovevo, corredata di autista e fotografo. Oggi può sembrare preistoria, ma all’epoca un giornalista non si muoveva senza quest’equipaggio, che era poi fondamentale per apprendere il mestiere. C’erano vessazioni, inevitabilmente, che ho poi trasferito nei romanzi “Il carezzevole” (2010) e “Il giallo Pasolini” (2019), dove lascio emergere la mia iniziazione giornalistica – le paure, le incertezze, i dubbi che può avere un ragazzo dinnanzi a certi eventi. Tra l’altro, quasi non esistevano agenzie: bisognava trovare la notizia, quella che scovavi finiva sul giornale. Io andavo sempre sul posto, chiamavo la redazione dove c’era un estensore (per lungo tempo fu Ugo Mannoni, il mio mentore) dopodiché tornavo per scrivere un pezzo d’accompagno. Questa è stata la mia vita per dieci anni, segnata da un lavoro ‘di prima mano’ fatto con la supervisione di cronisti più anziani.

Poi, nel 1985, “Paese Sera” entrò in autogestione. Due anni prima il Pci (che era l’editore) aveva tagliato i fondi, pertanto ci trovammo a creare una cooperativa per mandare avanti il giornale. Ovviamente durò poco, eravamo già negli anni Ottanta più ‘puri’. Entrai a “Repubblica” e cambiò tutto, era necessario adattarsi, anche perché il mondo del giornalismo stava cambiando. Il quotidiano, peraltro, non aveva ancora la nera e mi assunsero proprio per quello, insieme a Paolo Boccacci. L’ambiente era completamente diverso da quello di “Paese Sera”, quasi ‘rampante’. Ho mantenuto la mia umiltà, e mi sono sempre trovato bene; non ho voluto fare altro rispetto alla nera, da quest’osservatorio ho visto il mestiere cambiare, ed è stato bellissimo”.

Quando è avvenuto il passaggio dalla cronaca alla narrativa? Si potrebbe parlare di contaminazione, giacché è evidente l’osmosi fra la tua esperienza e l’‘adattamento’ letterario…

“Ho sempre avuto il ‘tarlo’ del romanzo. A 22 anni scrissi il mio primo libro, chissà dov’è finito il manoscritto… Ad ogni modo, assorbito dal mestiere, lasciai perdere per lungo tempo, finché nel 1998 mi chiamò Donzelli: volevano scrivessi un saggio, dal titolo “Roma maledetta. Cattivi, violenti e marginali metropolitani”. Andò bene, ma tornò a ronzarmi in testa l’idea del romanzo. Scrissi così “La legge di lupo solitario” (2007), pubblicato da Newton Compton, al quale seguì “L’istinto del lupo”, per lo stesso editore che non ho mai abbandonato. Grazie a quest’opera mi sono ritrovato al Premio Strega, un’esperienza incredibile, che mai avrei pensato di vivere. Arrivai terzo, dietro Tiziano Scarpa e Antonio Scurati. Ancora oggi, se ci penso, mi sembra impossibile. Comunque, vissi anche quell’occasione con umiltà e naturalezza, restando me stesso, stabilendo un contatto umano con l’ambiente.

Ad oggi ho scritto 22 romanzi: prima la serie di Marco Corvino – mio alter ego – in cui racconto il mestiere che cambia, poi altri filoni, dove lui non c’è perché è andato in pensione – esattamente come me. In questo tempo ho incontrato Antonio Del Greco, uno dei poliziotti con cui ho istaurato un sodalizio fecondo, non solo professionale ma umano. Ci comprendiamo, lavoriamo in sintonia. È un uomo colto e divertente, quando ci siamo conosciuti abbiamo subito capito che sarebbe nato qualcosa. Lui voleva scrivere un libro sulla sua esperienza, un racconto faceto, arguto, dal titolo “Te la do io la polizia”. Io decisi di presentarlo all’editore Newton Compton e da lì è iniziato il viaggio. Abbiamo scritto “Città a mano armata”(2017), che è un po’ un racconto di Antonio, della sua esperienza. Vi è tracciata una parabola significativa, che fotografa i mutamenti del mestiere – da quando non esistevano le impronte digitali sino alle moderne tecniche d’indagine (Dna, intercettazioni etc.). Antonio ha vissuto questo passaggio, esattamente come io ho vissuto quello dalla macchina da scrivere alla stampa digitale. L’opera ha avuto un grande successo, così si deciso di approfondire alcuni casi, dedicando loro singoli volumi: “Il Canaro della Magliana” (2018), “Quelli cattivi” (2019), “Il giallo di via Poma” (2020), “Inferno Capitale” (2020). Abbiamo in cantiere un nuovo libro, in cui ritroveremo alcuni personaggi. Parallelamente all’attività con Antonio scrivo libri per conto mio: ho un volume in uscita, sempre per Newton Compton, dal titolo “L’ultimo guerriero”. Una storia distopica, ancorata anche al dramma che stiamo vivendo”.

C’è un caso che ti ha colpito in particolare, uno di quelli che porti dentro, come un rovello?

“Un caso c’è, e mi ha talmente coinvolto che non ne scriverò mai. Si tratta del delitto di Cristina Capoccitti, un bambina di 7 anni trovata morta in un bosco di Balsorano nel 1990. Fu accusato – e condannato – lo zio Michele Perruzza, dopo un iter che molti ritengono vago perché, agli inizi, si era autoaccusato il cuginetto, figlio dello stesso Michele. Io seguii il caso sin da subito, e appena arrivato entrai a casa dei genitori della piccola, chiedendo informazioni. Sai come succede “a caldo”? Le persone parlano, si sfogano, dunque i presenti cominciarono a raccontare e io sentii visceralmente questa storia. Poi, naturalmente, la comunicazione si interruppe e dovetti uscire. Ecco, da quel momento ho seguito la vicenda con una partecipazione intensissima, esagerata. Quella bambina mi ha mangiato il cuore: ho sperato, ho pregato, ho pianto. È il caso che più mi ha segnato, e per questo non ne scriverò mai”.

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